18 febbraio 2016

Le seggiole.

La seggiola è come in toscano vengono chiamate le sedie. E' una bellissima parola dal sapore un po' screpolato e nostalgico che richiama lo stare assieme, il riposarsi, fare due chiacchere con gli amici e i parenti. Ce ne sono di tanti tipi nella casa contadina, quasi tutte in legno ed eventualmente con del "midollino" a creare la seduta. Il "midollino" è lo stesso materiale con cui si intrecciavano i fiaschi e lo si ricava dalla paglia essiccata. Nel restauro della casa ho trovato alcune vecchie sedie abbandonate, lasciate appassire al tempo, appartenute a un passato non troppo remoto, metà novecento a occhio. Fra queste, tipiche ma ordinarie, ne è emersa una particolare che mi ha stregato e che sembra appartenere a un periodo più antico, o a una lavorazione meno canonica, seppur sempre impostata su elementi poveri. Eccola qua:










Bella vero? Senz'altro molto particolare. Io non ne avevo mai viste così. Direi che si tratta di un legno povero, purtroppo molto tarlato, su cui è intrecciato uno spago legato. Lo spago crea degli intrecci virtuosi, abili, quasi ipnotici, che convergono al centro della seggiola. Continue sedute di pomposi deretani - le forme dei nostri nonni erano più generose, una mediterraneità fatta di fianchi e curve che a me piace ancora! - nel corso degli anni passati la hanno un po' affossata, lassata, ma la seggiola è ancora comoda. L'ho voluta provare e, oltre al sedere sporco di polvere - il mio adeguatamente contenuto -, un sinistro scricchiolio e una sensazione di seduta molto bassa, ho vissuto un tuffo in quel passato di cotto e graniglia, spago, canto del fuoco, gottini di vino, "prendiamo una boccata di aria bona", quando magari la seggiola, che non di rado aveva anche un nome inciso con un coltellino, quasi fosse un possesso da non condividere con nessuno, veniva spostata fuori, sotto il pergolato, nell'aia. E trovava, questa seggiola, altre seggiole: altre anime stanche della giornata di fatica, a osservare il tempo, a contarsi i dolori, ad aspettare il buio prima di farsi alcova e nido di amori e parole.

16 febbraio 2016

Il pane sciocco.

La Toscana contadina ha una lunga storia legata alla coltivazione di grani autoctoni e macinati in mulini condivisi sparsi poi nel territorio. Ogni famiglia panificava le farine dei mulini in forni da pane, spesso costruiti in casa o altre volte beni comuni della collettività. Col pane ci si sfamava. E quanto è forte il simbolo della falce per la civiltà contadina? Il pane è forse l’alimento più intimamente connesso con l’uomo e la sua evoluzione. Ancora oggi si discute sulla scintilla, del passaggio evolutivo - cardinale quanto il linguaggio,  la ruota e la padronanza del fuoco - che portò l’uomo a scoprire la magia della lievitazione, quel processo fermentativo che porta un impasto di farina di un cereale e acqua a elevarsi, grazie al lavoro di lieviti e alla cottura, nella meraviglia di una forma croccante fuori, profumata e soffice dentro. Non è un caso che le prime coltivazioni del genere umano siano state il frumento e l’orzo fra l’Egitto e la Mesopotamia. Ogni civiltà antica ha infatti alla base della propria alimentazione pani e focacce, preparazioni semplici e povere ma molto buone e in grado di sfamare. Spesso il pane ha avuto anche un ruolo simbolico in ambito religioso: nella cultura cristiana il pane quotidiano è segno di provvidenza e amore divino e in uno dei miracoli di Gesù viene moltiplicato insieme ai pesci. Durante il rito dell’Eucarestia il pane è spezzato e poi condiviso e mangiato dagli apostoli a rappresentare il corpo di Cristo.
L’arte bianca ebbe poi un eccezionale impulso in età classica. L’antica Roma aveva intere città specializzate nella produzione di pane: Pompei vantava quasi 50 forni, mentre il porto di Ostia era rinomato per i granai, pronti ad accogliere i cereali dalle province dell’impero. Innumerevoli anche i mulini, che permettevano la macinatura del cereale, e i fornai che producevano giornalmente numerose tipologie di pane. Il termine farina deriva dal latino farrina che definiva il prodotto polverizzato della macinazione del farro, essenziale per fare il pane.
Il pane di oggi mangiato in Toscana affiora in queste radici ma ha assunto caratteri propri: oggi quando si sente parlare di pane sciocco si pensa immediatamente a Firenze e al suo delizioso pane senza sale. Il sale è sempre stato un elemento prezioso e fondamentale per conservare e insaporire. Per la sua distribuzione sono state costruite imponenti assi viarie come la Via Salaria e le paghe erano gruzzoli di sale: il salario. Addirittura durante il Medioevo Firenze ne venne privata per un dispetto dei pisani, che bloccarono al loro porto per un lungo periodo le navi di sale dando via alla proverbiale rivalità fra le due città. Quindi ci si industriò - soprattutto fra i ceti meno abbienti, grazie a genio creativo della civiltà contadina che dal poco ha sempre creato il tanto - a fare il pane con quel che si aveva: grano, acqua, lievito e poco, o punto, sale. “Tu proverai siccome sa di sale lo pane altrui” è un verso del Paradiso pronunciato da Cacciaguida a Dante in premonizione del suo futuro esilio dall’amata Firenze: “A breve, caro Dante, ti toccherà mangiare il pane salato, quello degli stranieri, non il delizioso pane senza sale con cui sei solito deliziarti a Firenze”. Questo il senso del verso a riprova di quanto buono e radicato fosse il pane sciocco a Firenze sin dal Medio Evo.
Infatti il nostro pane si presentava buonissimo anche senza sale e con una varietà cerealicola, di tecniche e di impasti ampia e sapientemente padroneggiata. La classica ruota di pane bianco toscano ha avuto la sua forte affermazione solo nel Secondo Dopoguerra, quando ha rappresentato una volontà da parte dei nostri nonni di portare a tavola un pane a loro vedere da “ricchi”, fatto con farina raffinata di grano frumento, che facesse loro dimenticare i pani integrali, parzialmente lievitati, che mangiavano per sfamarsi durante gli anni bui della guerra e dei razionamenti.


Falce e farina su una tavola di legno crudo e un tipico muro a pietra e mattoni. Foto (bellissima) di Sandra Pilacchi.