Ricordo ancora i rumorosi
pranzi domenicali dalla nonna. La casa era piccola eppure la sala da pranzo, utilizzata
solo una volta la settimana e tenuta sempre chiusa, pulita e in ombra, la
domenica assumeva un che di sacro che la ingigantiva.
Malgrado non vivessimo distanti, quella era l’occasione per stare insieme e
ossequiare attraverso il cibo un valore condiviso da ogni membro, seppur ognuno
a modo proprio: la famiglia. Ciò che ancora oggi mi ritorna in mente sono i
profumi vividi di quel giorno, di quel rito chiassoso e spensierato che pure
aveva le sue regole e un pizzico di formalità.
Quegli odori ogni tanto
riappaiono, sono subito quelli: aprendo un cassetto di una vecchia casa, in un
colorato mercato di un paese remoto durante un viaggio, addosso a persone
sconosciute che subito noti fra tante, è come se tornassi immediatamente alle
domeniche di una volta, a quei pranzi ormai lontani.
La tovaglia, quella buona,
apparecchiata fin dal mattino. Il sugo a sfrigolare nelle pentole, preparato
fin dalla prime ore del giorno. I ravioli fatti in casa, con gli spinaci e la
ricotta del pastore. La zia e la mamma a preparare gli immancabili crostini
neri. Poi la carne, il “rosbif” o l’arrosto, a seconda della stagione. E sempre
tanto pane, quello bianco sciocco: chi solo la crosta, chi solo ma mollica, chi
con la fetta sottile, chi larga. Fino al momento così atteso del dolce,
preceduto dal formaggio “per pulirsi la bocca”.
A tavola vi era la posizione di
rilievo, il nonno, che vigilava bonario il gruppo e si occupava del vino. Ai
suoi fianchi gli uomini, i mariti delle figlie, le due sorelle, mia mamma e mia zia, e poi
noi bambini. Si mangiava, tanto, troppo. La barocca architettura a quattro
tempi del pasto all’italiana si è consolidata durante questo momento: il
canovaccio prevede una ricca offerta di antipasti, incentrata sui crostini e
gli affettati e modulata poi sul talento della cuoca e la stagione, un primo
piatto a base di pasta fresca o asciutta, la carne con un contorno di verdure,
l’immancabile dolce, il caffè fatto con la caffettiera che appena “viene su”
avvolge col suo profumo esotico tutta la stanza. In tavola il Chianti,
storicamente nei bellissimi e larghi fiaschi versato generosamente nei gottini e
spesso fatto assaggiare anche ai bambini, “così fa sangue”.
Durante questa
maratona gastronomica si parlava di tutto, spesso con confronti anche aspri, ma
sempre molto schietti. Da bambino talvolta trovavo molto noioso il dover andare
per forza a mangiare dai nonni, la domenica a pranzo. Mi sentivo quasi in
dovere di fare le bizze, di affrettare la crescita per darmi un’indipendenza.
Eppure quel modo di relazionarsi, affabile, non invasivo, con tanto cibo, il
senso del buono così accanto al bello, è come se avesse plasmato il mio modo di
essere, la mia persona: una sorta di educazione sentimentale fatta di bocconi e
parole. Il pranzo della domenica è ancora un momento cardinale nella vita delle
nostre famiglie. Sono passati tanti anni e i bambini di allora sono le mamme e
i babbi di oggi. I nonni sono sempre i nonni, anche se i volti e i nomi sono
cambiati. É curioso vedere come certe situazioni si rincorrano e si ripetano.
Sono ancora i profumi il filo conduttore: il sugo, l’odore di casa, le
preparazioni più lunghe ed elaborate, dedicate a quel ritrovo, una certa
compitezza nel prepararsi al mattino prima di uscire, la fretta nei gesti per
non essere gli ultimi ad arrivare che il nonno vuole mangiare presto. Suono il
campanello. Non siamo gli ultimi. Le bambine corrono gioiose a farsi
sbaciucchiare dai nonni. Vedo un senso di malinconica dolcezza che affiora
negli occhi dei nonni incantati dai movimenti festosi dei nipoti. E’ già tutto
pronto e inappuntabile da ore. La casa ci avvolge di profumi e non resisto alla
tentazione di afferrare un crostino nero già in tavola, godendo del rimprovero
di mia mamma. Un nuovo pranzo della domenica è iniziato.
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