25 giugno 2016

Lo "stupido picchio" e la democrazia vanitosa.

Non mi piace la politica, semplicemente non mi appassiona, ma non ignoro quanto questa impatti nella mia vita quotidiana: chi é che diceva che l'uomo é necessariamente politico? Il mio disinteresse quindi talvolta mi appare profondamente stupido - lo riconosco - tuttavia ha una sua ragione d'essere che, nelle contingenza di queste ore calde di "brexit", ho avuto modo di rianalizzare.
Leggevo ieri sera un po' di commenti: sia analisi serie che considerazioni su Facebook sia qualche insight delle demografiche che hanno eviscerato ceto, geografia e livello di istruzioni dei perfidi votanti di Albione. Uno di questi mi ha colpito: un analista de Il Sole 24 Ore che amareggiato faceva il conto di quanto i mercati europei avessero bruciato l'indomani la vittoria del brexit, nello stesso momento in cui (fonte Google UK ripresa dal Washington Post) nei trend topic di ricerca in Inghilterra vi sono domande che suonano più o meno così: "What is UE?". Insomma: le mie rate del mutuo saliranno, i miei già piccoli investimenti si afflosceranno a causa di "scelte" compiute a migliaia di chilometri da persone che manco hanno intuito, non dico capito, compreso, analizzato, ma soltanto appunto intuito che cosa implicasse, che cosa significasse, il bivio leave o remain. Ecco che allora mi sento uomo politico e penso, cogito.
Io non ho molte adorazioni: sono un tipo scettico, disincantato che cerca di essere auto-ironico e dissacratorio. Una risata vi salverà! Ecco, una di queste venerazioni, accanto a Batistuta, Pirandello e l'ecke ecken (in posta privata chi é curioso di sapere cosa sia), é Matt Groening. Una puntata miliare dei Simpsons é quella dello "stupido picchio". Al buon Homer viene affidata la sicurezza della centrale nucleare di Springfield. Nel farlo, con le migliori intenzioni, Homer "automatizza" il processo fruendo di un bastoncino a molla che termina col muso di un picchio. Su-click, su-click, su-click: il picchio svolge egregiamente la sua missione e Homer può dedicarsi al riposo contemplativo. Qualcosa però va storto - si insinuano delle complessità, delle complicazioni - e il nocciolo va in fissione, creando un incidente nucleare. "Stupido picchio" é l'epiteto con cui Homer si scaglia infuriato contro il picchio meccanico, mentre il mondo si avvia a un olocausto nucleare.


Lo stupido picchio in azione: una geniale metafora dei paradossi della democrazia!

Ecco, ieri sera a leggere che gli inglesi del brexit stiano googlando ossessivamente cosa sia l'Unione Europea dopo il voto, a conseguenze nefaste in atto, mi ha fatto ripensare a Homer e allo "stupido picchio". Quale é, se c'é, la morale di questa storia? Secondo me, e qui arrivo a una conclusione che ingenererà strali e accuse, é che strumenti delicati, con complesse implicazioni sociali, politiche ed economiche come lasciare o rimanere in Europa non possano essere affidati al popolo e a un referendum. Io non mi sarei sentito in grado di una decisione così rilevante. 
E se la politica non é in grado di rappresentarci prendendo, in autonomia votata, decisioni così alte, affidandole a ventri caldi e rabbiosi (spesso a ragione rabbiosi, peraltro), allora davvero la politica non é più e la democrazia implode nella sua stessa eccessiva vanità.

24 giugno 2016

Universi paralleli

Sono giorni lenti. Oggi il caldo cuoce. Ieri sera eravamo a Roma: le avventure del libro continuano. Anche a questa presentazione le "fiabe" de "La Toscana di Ruffino" sono piaciute e hanno unito molto persone. 

Il bellissimo spazio di Settembrini Libri e Cucina a Roma.
Certo fa proprio effetto: da un lato il portale del fienile di Bisarno, che per l'appunto è il protagonista della copertina, sta girando l'Italia e il mondo, come se si fosse incarnato nel libro. Sembra quasi che abbia preso una vita a sé, come in uno degli onirici libri di Murakami: un Bisarno vivo, suggestivo, abitato.
Dall'altro lato, in un universo so far so close, questo da dove scrivo, attorno a quel portone in realtà crescono adesso le erbacce che hanno quasi nascosto l'aia lastricata. La betoniera, immobile perché i lavori sono a singhiozzo, lucente di calce secca colata accanto all'altalena. Un nido di vespe ronza sopra la porta della casa, accanto ai ponteggi che chissà per quanto tempo ancora nasconderanno la facciata. E' come se ci fosse una visione doppia (a quasi un mese dal mio lasik...): un Dorian Gray eterno giovane a sollazzarsi per Londra e il suo ritratto moralmente abbrutito e senescente fermo ai piedi della Sieve. Eh sì, è un po' così. Periodo prevedibile. Adesso dominano le spese, le scocciature, le burocrazie, gli equivoci nel cantiere fra chi fa il tetto, la facciata e gestisce i ponteggi. Eppur si muove. Intanto, c'è vita al Bisarno: la salvia rigoglia profumata accanto alla lavanda. Dopo le ciliegie, le prime a maturare, adesso è il turno di due piante di susine selvatiche, dolcissime. Ci sono poi tre noci gonfi di frutti. Senza far nulla, la natura procede il suo ciclo, quest'anno come mai continuamente del resto annaffiato da continue piogge. Soprattutto, qualcosa di restaurato si comincia a intravedere. Il tetto a capanna della torretta, per esempio, è pressoché completo. E anche qui che fatica: la prima volta era stato combinato un disastro, e che fatica a farlo rifare. Adesso, però, mi piace, tanto quanto come il fumaiolo che svetta. Così come le prime stuccatore. Abbiamo perso un mese a tentare di miscelare calci con ossidi, calci con coloranti, calci con sabbie per poi ritornare alla prima ipotesi, una calce biologica che comunque regala quell'effetto di terreno asciutto, fra il giallino e il corda, molto suggestiva.

Il camino e la parte alta della parete stuccata.


20 giugno 2016

Breve storia della lingua toscana (dalla parte di chi lavora la terra).

Spesso si sorride ascoltando alcune espressioni della lingua contadina, si ironizza sulle virulente coloriture dialettali della gente dei campi. Ci consideriamo fieri paladini di una lingua colta e forbita che niente condividerebbe con lo schietto periodare, vivo e pulsante, del contado. In realtà non molti sanno che la nostra meravigliosa lingua italiana - il "volgare" così chiamato perché inizialmente veniva parlato dal volgo e dai meno abbienti - soprattutto nei suoi termini più icastici e concreti - si sia lentamente costruita dalle forme della lingua agricola latina prima e del volgare poi. Senza dilungarsi in noiose argomentazioni e semplificando un pizzico, l’italiano è una lingua neolatina che si è sviluppata naturalmente dal progressivo disgregamento del latino, perché serviva un mezzo di comunicazione più efficace, diretto e colloquiale e dal potenziale di oralità più marcato.
La prima attestazione scritta in una nuova lingua, l'italiano! Siamo nell'VIII sec.

Inoltre il latino, a differenza di altre lingue classiche come il greco o il tedesco, non ha mai presentato una matrice lessicale a base filosofico-speculativa (più semplicemente: non esistevano termini che definissero i concetti), ma si è formato come lingua grazie all’apporto di alcuni dialetti tecnici, sui quali prevalse per importanza la lingua dell’agricoltura, peraltro la principale risorsa economica dell’antica Roma. Quindi, non è improprio sostenere che l’italiano sia nato proprio nei campi, fra le fatiche, le soddisfazioni, gli accidenti che coltivare la terra comporta. Proprio come “i fiori” nella canzone di De Andrè, la lingua che parliamo tutti i giorni, è sbocciata dal fango, dai ritmi del tempo scanditi dal sole, dalle piogge, dalle campane, dalle geometrie del volo degli uccelli, dai cicli di vita delle piante e degli alberi.
Le prime e più grandi opere letterarie in volgare vengono vergate nel Trecento in una lingua nuova che si parlava in Toscana da qualche secolo: Dante, Petrarca e Boccaccio, i babbi della lingua italiana, pur mantenendo una certa letterarietà espressiva, attingono da subito al mondo agricolo, a metafore agresti, a parole sonore, gorgoglianti e icastiche proprie della civiltà contadine.


Alessandro Manzoni per il suo romanzo nazionale sceglie il fiorentino scritto, "sciacquando i panni in Arno" e fruendo di una lingua comprensibile da tutti e colloquiale.
Il fiorentino, lingua viva su cui poi è stato normatizzato e codificato l'italiano, inizialmente nel Cinquecento grazie alla "questione della lingua" sollevata dal veneziano Bembo, successivamente col milanese Manzoni nell'Ottocento e, infine, grazie alla radiotelevisione irradiata da Roma e all'alfabetizzazione del XX secolo (riducendone ahimè l'ampiezza lessicale e opacizzandone la coloritura espressiva) ha avuto il merito di innestare sistematicamente questo lascito classico nel mondo mezzadrile che ha caratterizzato l'Italia centrale per quasi un millennio.
In questo microcosmo sociale e culturale, anche il linguaggio, necessariamente comunicativo e raramente scritto, si è plasmato in esclamazioni, lessici, non di rado imprecazioni tipiche del lavoratore dei campi e che sono arrivate fino a oggi come parte integrante del vocabolario italiano. Infatti queste espressioni di vita agreste, originate dal latino, riprese nel volgare fiorentino, si sono durante i secoli camaleontizzate nel nostro parlato quotidiano più di quanto si possa immaginare. Qualche esempio? Si pensi al termine “lieto”, che nell’italiano d’uso indica uno stato d’animo sereno e felice. “Laetus”, in latino, è un aggettivo che significa “grasso, concimato”. Una spia del significato originario del vocabolo, del resto, lo troviamo nel termine “letame”, che c’è giunto dal sostantivo latino “laetamen”, in questo caso senza traslarsi, mantenendo quindi intatto il significante agricolo. Potrei portare centinaia d’esempi: attualmente io sto “scrivendo”, voi “leggendo”. In realtà “scribère” e “lègere” (i verbi latini) significavano rispettivamente “incidere” e “raccogliere”, con chiaro riferimento a gesti propri della giornata nei campi. “Condurre”, “conducente”, “condottiero” risalgono al verbo latino “dùcere”, dal significato originale di “guidare il bestiame”. “Egregio” altro non è chi si distingue perché esce dal gregge (“ex gregiis”), “delira” chi sta fuori dal solco segnato dal vomere. La “lacrima”, nobile espressione dei nostri più intimi sentimenti, indicava la gocciolina che trasudava dalle piante e, nella vite, la linfa che saluta il risveglio vegetativo.
Una eredità colta e popolare al contempo, costruita in millenni di fatica agricola ancora oggi viva e pulsante, che ha reso noi toscani abili oratori ed efficaci comunicatori: "Ho desinato con due braciole rifatte, poi ho rigovernato i cocci nell'acquaio e li ho asciugati con l'asciughino".
Quanta forza visiva, storica, culturale - quanta unicità e bellezza? - ha una espressione come questa?