1 luglio 2016

Il pranzo della domenica.

Ricordo ancora i rumorosi pranzi domenicali dalla nonna. La casa era piccola eppure la sala da pranzo, utilizzata solo una volta la settimana e tenuta sempre chiusa, pulita e in ombra, la domenica assumeva un che di sacro che la ingigantiva.
Malgrado non vivessimo distanti, quella era l’occasione per stare insieme e ossequiare attraverso il cibo un valore condiviso da ogni membro, seppur ognuno a modo proprio: la famiglia. Ciò che ancora oggi mi ritorna in mente sono i profumi vividi di quel giorno, di quel rito chiassoso e spensierato che pure aveva le sue regole e un pizzico di formalità.
Quegli odori ogni tanto riappaiono, sono subito quelli: aprendo un cassetto di una vecchia casa, in un colorato mercato di un paese remoto durante un viaggio, addosso a persone sconosciute che subito noti fra tante, è come se tornassi immediatamente alle domeniche di una volta, a quei pranzi ormai lontani.
La tovaglia, quella buona, apparecchiata fin dal mattino. Il sugo a sfrigolare nelle pentole, preparato fin dalla prime ore del giorno. I ravioli fatti in casa, con gli spinaci e la ricotta del pastore. La zia e la mamma a preparare gli immancabili crostini neri. Poi la carne, il “rosbif” o l’arrosto, a seconda della stagione. E sempre tanto pane, quello bianco sciocco: chi solo la crosta, chi solo ma mollica, chi con la fetta sottile, chi larga. Fino al momento così atteso del dolce, preceduto dal formaggio “per pulirsi la bocca”.
A tavola vi era la posizione di rilievo, il nonno, che vigilava bonario il gruppo e si occupava del vino. Ai suoi fianchi gli uomini, i mariti delle figlie, le due sorelle, mia mamma e mia zia, e poi noi bambini. Si mangiava, tanto, troppo. La barocca architettura a quattro tempi del pasto all’italiana si è consolidata durante questo momento: il canovaccio prevede una ricca offerta di antipasti, incentrata sui crostini e gli affettati e modulata poi sul talento della cuoca e la stagione, un primo piatto a base di pasta fresca o asciutta, la carne con un contorno di verdure, l’immancabile dolce, il caffè fatto con la caffettiera che appena “viene su” avvolge col suo profumo esotico tutta la stanza. In tavola il Chianti, storicamente nei bellissimi e larghi fiaschi versato generosamente nei gottini e spesso fatto assaggiare anche ai bambini, “così fa sangue”.
Durante questa maratona gastronomica si parlava di tutto, spesso con confronti anche aspri, ma sempre molto schietti. Da bambino talvolta trovavo molto noioso il dover andare per forza a mangiare dai nonni, la domenica a pranzo. Mi sentivo quasi in dovere di fare le bizze, di affrettare la crescita per darmi un’indipendenza. Eppure quel modo di relazionarsi, affabile, non invasivo, con tanto cibo, il senso del buono così accanto al bello, è come se avesse plasmato il mio modo di essere, la mia persona: una sorta di educazione sentimentale fatta di bocconi e parole. Il pranzo della domenica è ancora un momento cardinale nella vita delle nostre famiglie. Sono passati tanti anni e i bambini di allora sono le mamme e i babbi di oggi. I nonni sono sempre i nonni, anche se i volti e i nomi sono cambiati. É curioso vedere come certe situazioni si rincorrano e si ripetano. Sono ancora i profumi il filo conduttore: il sugo, l’odore di casa, le preparazioni più lunghe ed elaborate, dedicate a quel ritrovo, una certa compitezza nel prepararsi al mattino prima di uscire, la fretta nei gesti per non essere gli ultimi ad arrivare che il nonno vuole mangiare presto. Suono il campanello. Non siamo gli ultimi. Le bambine corrono gioiose a farsi sbaciucchiare dai nonni. Vedo un senso di malinconica dolcezza che affiora negli occhi dei nonni incantati dai movimenti festosi dei nipoti. E’ già tutto pronto e inappuntabile da ore. La casa ci avvolge di profumi e non resisto alla tentazione di afferrare un crostino nero già in tavola, godendo del rimprovero di mia mamma. Un nuovo pranzo della domenica è iniziato. 
 
I crostini coi fegatini! Preparazione e foto di Sandra Pilacchi (Sono io Sandra)

28 giugno 2016

"Un paese ci vuole".

"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via".
La prima volta che mi sono imbattuto in questa frase di Cesare Pavese non avevo ancora vent'anni e divoravo libri, film, poesie con passione bulimica, "matta e disperatissima". C'era "Il mestiere di vivere", per me quasi una bibbia,  ma c'erano anche i suoi racconti e questa frase de "La luna e i falò" - io che non piego mai un libro per non piagare la pagina nè tantomeno lo scarabocchio o evidenzio - l'avevo accuratamente sottolineata e rimarcata: lapis B2 (lo usavo perché mi ricordava la fenomenica B2 Batistuta-Baiano, eredità della mitologica Baggio-Borgonovo) con righello per non andare storto. 
Peraltro era proprio di Pavese la poesia che ci presentò in terza liceo la persona che più disorientò il mio già piccolo universo conoscitivo, il professore di Italiano e Latino: non un grande incipit (almeno per gli altri...) presentarsi a noi studenti spauriti con "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi": io ricordo ancora quanto male - e bene - mi fece quella lettura: il giorno dopo ero alla Feltrinelli di via Cerretani a comprarmi "Lavorare Stanca" e l'altro suggerimento, il "Lettere a un giovane poeta" di Rainer Maria Rilke. Poco prima a San Lorenzo avevo appena comprato l'ennesima sciarpa della Fiorentina: la stagione prometteva bene (e al solito avrebbe mantenuto poco).
Di quei vent'anni ho molti capelli in meno e poche passioni immutate: tutto cambia. Continuo però a divorare libri, seppur molto del tempo intimo (quello in camera prima di addormentarsi, che io ho sempre dedicato alle storie) sia stato violato da internet, dai social, che si sono intrufolati attraverso apparecchi sempre più piccoli e portatili fin sotto le mie lenzuola, accanto alla luce fioca della mia abat-jour con cui ho sempre cercato di costruirmi un prezioso mondo solo mio di bovarismi, velleità, pacificazioni ed eroismi. E quella massima pavesiana sul significato di paese, in vent'anni, non ha perso per me una stilla del suo significato. Al mio paese, correlativo oggettivo del mio modo di essere, ci ho sempre creduto con un sentimento ambivalente: ricordo il piacere che mi dava scorrazzare in bicicletta lungo la Sieve: d'estate il fiume in secca per molti puzza, a me quell'odore di fermo, immobile, é sempre sembrato adeguato, necessario, forse perché mi ci sono abituato, estate dopo estate, corsa in bicicletta dopo corsa in bicicletta. Il fine settimana trascorso al Bisarno è servito proprio per riappropriarmi di questo mondo, visto quanto Bisarno adesso significhi purtroppo astrazione burocratica, tempistiche lente, spese continue.
Oggi quelli del tetto, che dovevano re-iniziare dopo una settimana di stop, mi hanno detto (detto, parolone...ho dovuto informarmi del perché non ci fossero) che torneranno al cantiere mercoledì. E così ci saranno altri due giorni di non-procedere, che sono i peggiori perché fanno solo innervosire e acuire quel senso di frustrazione latente che deriva da un restauro che è e sarà lunghissimo, seppur siano trascorsi solo sei mesi. Sabato dicevo, forti dell'aiuto di due trattori, la compagnia di un cane e l'abbraccio nutriente del sole, abbiamo sbancato della terra, sciocchezzuole, pulito un po' l'ambiente di lavoro, fatto qualche risata, raccolto salvia e susine, conosciuto dei nuovi gattini, immaginato momenti di condivisione ("qui ci si faranno le grigliate"), è venuta anche Matilde a scorrazzare in sandali nel terriccio smosso, lamentandosi continuamente della sabbia nei piedini e curiosando fra gli strani abitanti di Bisarno, fra cui - e qui devo capire come risolverla - un nuovo alveare sciamato chissà da dove.


Il Bisarno dal basso e il simpatico cane del vicino.




Sotto il sole caldo di una estate finalmente iniziata, a torso nudo a sentire il sudore bagnarmi, mi sono ancorato al mio "paese", perché, come prosegue Pavese, "un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti". Si, aspetta. Senza fretta, senza urlare, senza tradire.