6 febbraio 2016

Desinare

Oggi è stata una giornata davvero faticosa. Secchi e secchi di calcinacci portati via senza sosta, fra la polvere e l'umido. Sono arrivato al pranzo del mezzogiorno con una fame aggressiva, sana e borbottante già dalle 11.30. Come non ho mai quando lavoro in ufficio. In Toscana utilizziamo una parola desueta e un po’ nostalgica per il pranzo del giorno cucinato a casa, il “desinare”. Il desinare richiama infatti l’interruzione del digiuno, quando il mangiare non era per niente scontato, di pasti se ne facevano pochi e quello del giorno era quasi sempre il principale e il più sostanzioso anche perché doveva fornire le giuste energie per il lavoro del pomeriggio. Il desinare ha profondi legami con quel passato. E’ un pasto consumato molto presto, attorno a mezzogiorno. Non è quasi mai un pranzo leggero o di impronta moderna. E’ lento perché prevede il mettersi a tavola e gustare più portate, il rintuzzarsi il tovagliolo nel petto per non sporcarsi di sugo, la crosta del pane sciocco messo sulla tavola da spelluzziccare nei brevi intervalli fra un piatto e l’altro, un cicaleccio continuo e garrulo di chiacchere saporite e veraci. Ogni donna ha nella cucina di casa il suo regno assoluto e gli strumenti e i gesti con cui ossequiare questo rito di affetti semplice e profondo. Il mestolo di legno per girare il sugo, la padella a sfrigolare, gli “odori” per soffriggere, il battuto con la mezzaluna, l’asciughino per tenere le mani sempre pulite e asciutte, il coltello buono per affettare il pane, la stufa per tenere al caldo le vivande, la madia per contenere il pane, la caffettiera che non deve essere mai lavata sennò il caffè non viene buono. Si desina sempre in cucina, e quasi sempre mentre la mamma continua a cucinare, si siede un attimo e si riappropria dei fornelli in una disfida fra “prendine ancora” proferito incombente con spalle erette e un “basta non ne posso più” di risposta dal desinante sempre più accasciato e appesantito. Ancora non si è finito di sorseggiare il caffè, servito bollente, che già si sente lo sciacquio dei cocci a “rigovernare” nell'acquaio. 
I piatti proposti sono spesso decisi di gusto, elaborati e molto nutrienti. Si desina con gli avanzi, con piatti creati da quello che si ha ancora in frigo o che sta per deperire: “non si butta via niente, è peccato!”. Bucce di verdure, pastasciutte non finite, verdure un po’ andate sono spunti per preparazioni appetitose e nutrienti. Soprattutto, il desinare incarna un sistema di valori dominato dal ruolo della mamma, o della nonna, che si ingegna a nutrire la famiglia con gusti affettuosi e carezzevoli per abbondanza e sapori. “Cosa vuoi domani?”. “Non ne hai mangiato abbastanza - per caso non ti piace?”. “Prendine ancora, non ti piace?”. Certe domande di mia nonna, ricche di affetto e un po’ di ansia, le mie risposte quasi scocciate e un po’ annoiate, mi tornano ancora oggi a mente. Eppure mia nonna, come altre nonne, e mamme, mi educava e mi amava a suo modo: con gesti, premure e abbondanze. Grazie al cibo e al momento magico del desinare.  Ogni volta, nell’attimo faticoso prima di escludermi da quel piccolo mondo antico per andare a costruirmi la mia strada, mi ricordo la mia pignoleria nel non sbattere mai la porta di uscita: la accompagnavo con dolcezza per non far troppo rumore. Era il mio inconscio non volere tradire quello stretto nido saturo di profumi e sicurezze che ancora oggi mi metto addosso quando fuori fa davvero freddo e il ricordo del profumo di pane della madia di casa dei nonni scalda più di un avvolgente cappotto di lana.

Un classico dei miei desinari: la fettina di fegato. 
La foto è della blogger Sandra Pilacchi.

2 febbraio 2016

"Nella vecchia fattoria"

In ogni fattoria si trovava tutto il necessario per condurre una vita dignitosa. L'orto garantisce verdure di stagione tutto l'anno. Le galline razzolano nell'aia. I maiali sguazzano nel trogolo dentro la porcilaia. I conigli si agitano nelle loro gabbie. I vitelli ruminano nelle mangiatoie nelle stalle di casa. Si coltivano cereali e alberi da frutto. Si panifica il pane nel forno a legna con le farine macinate nel molino della comunità. Si beve acqua dal pozzo e il vino delle vigne attorno. Se vi sono olivi, si condisce e si conserva con l’olio d’oliva, stoccato negli orci in terracotta. Si zucchera con la zucca. Il sale è un bene prezioso e manca quasi sempre e si fanno essiccare le erbe aromatiche per insaporire i piatti. Per le occasioni speciali, le feste religiose, la nascita di un figlio maschio, ci si concede anche il lusso di mangiare un po’ di carne, non solo il “quinto quarto”, e degustare anche del dolcissimo Vin Santo, le cui uve sono state fatte appassire nel fienile dove si stocca il grano. Non manca neanche la cappelletta dove pregare o, al più, un piccolo tabernacolo votivo con una immagine sacra. Durante la bella stagione la vita si svolge quasi esclusivamente all’aperto. La giornata del resto è solo fatica nei campi. Quando è ancora caldo è l’aia il perno sociale: di giorno ci si ammassano i covoni di fieno per la battitura, il mangime per gli animali, i bambini giocano, le donne filano e fanno i "lavori", appoggiate su sedie in vimini. D’inverno la vita della famiglia si sposta dentro casa: riparazioni, attività manuali di vario genere, la manutenzione della casa, sono lasciate ai giorni di pioggia, o alla stagione fredda. A lavori conclusi, ci si stringe attorno al camino, col paiolo di rame sempre sul fuoco, abbrustolendo qualche castagna e raccontandosi la giornata.
E’ questo un mondo che si è plasmato dal Medioevo a partire dai primi insediamenti nelle cosiddette case-torre, strutture in pietra turrite e altamente fortificate e si è affermato poi durante il Settecento e l'Ottocento, quando alle case-torre si sono poi affiancate le fattorie leopoldine, pensate dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo dei Lorena. In concomitanza coi primi insediamenti le famiglie contadine sono state organizzate attraverso il cosiddetto sistema mezzadrile: la mezzadria era un contratto di lavoro in virtù del quale un proprietario terriero affidava in gestione le sue terre a un mezzadro, dividendo il raccolto. A sua volta il mezzadro organizza le terre avute in concessione a famiglie, punteggiando così la campagna di piccole comunità contadine.
La fine a metà Novecento del sistema mezzadrile ha piegato la compattezza della civiltà contadina ma non la ha del tutto spezzata. Certe arguzie, gli occhi vispi, l’arte dell’arrangiarsi e del non buttare via niente, il significato di famiglia, il desinare e la cena presto con mangiari sostanziosi e di gran gusto, un amaro e ironico disincanto, il bello necessario, accogliente ed essenziale delle case di campagna, l’invenzione di parole che sono oggi parte della lingua italiana, sono alcuni fra gli infiniti lasciti della civiltà contadina e della vita dei campi che sono parte vivace e inconfondibile e assorbita del nostro modo di essere. 

Un sistema fattoria ancora ben vivo: marzo 1983. Fotografia di Antonio Barletti.