10 dicembre 2016

Il bagno ospiti, le cementine e i tubi di rame a vista.

In una delle stanze di Bisarno erano presenti le cementine, mattonelle esagonali a colori scuri in grande voga nelle case negli anni Venti.
Mi è subito preso una gran voglia di provare a recuperarle e a farne l'impiantito per una piccola zona di Bisarno: il bagno ospiti del piano terrra.
Chiaramente, la scelta di un materiale marcatamente primonovecentesco, ha richiesto un pensiero a priori su come impostare il bagnetto, senza dimenticarne le dimensioni ridotte.
Quindi: senz'altro cementine, che nel mio caso sono in predominanza grigio e rosso fegato, con una decina di esagoni neri (i più belli secondo me). Queste sono state preventivamente recuperare, pulite, lucidate. Incollate solo sul pavimento e su una parete della doccia, sulla stessa linea che è come se si alzasse di novanta gradi verso l'alto. Le pareti scoperte le faremo in resina. Altro aspetto novecentesco è l'opzione delle tubature a vista in rame, compresa la rubinetteria per la quale stiamo cercando cose industriali, tipo aperture a ruzzoline rosse. Il lavabo sarà in cemento, anche qui per esaltare la scelta delle cementine. La parete con apertura di ingresso sarà in ferro e vetro opaco. Insomma, un bagno che vuole ricreare un contesto atipico per Bisarno, dal sapore di archeologia industriale, ma che secondo me avrà, una volta realizzato, un grande fascino.
Il lento ma soddisfacente recupero.

6 dicembre 2016

In limine. L'ingresso di Bisarno.


Un disegno della facciata dell'aia con l'ingresso.
Trasformando un ingresso in terrazza e viceversa, ci siamo trovati con l'ingresso - il primo accesso verso la parte esterna della facciata dell'aia - non complanare rispetto all'aia. Di conseguenza, abbiamo dovuto realizzare una struttura di tre gradini accessibili da ogni lato. Il progetto, come ogni decisione, ha vagliato gli exempla storici e si è incarnato in un senso estetico atemporale che rispettasse i materiali costruttivi storici. Di conseguenza, si è optato per una piccola scalinata ampia, larga quasi 270 centimetri e profonda circa 90, che si eleva con tre gradini l'ultimo dei quali coincidente con la soglia. Tre parallelepipedi decrescenti. Alzata in pietra e mattoni, pedata in cotto storico recuperato dai vecchi pavimenti della casa. Avanti tutta!
La base dell'ingresso, che verrà parzialmente incassata.
Si procede!


L'ultimo gradino che coinciderà con la soglia.

5 dicembre 2016

Post inutile.



Siamo a dicembre. Due volte ammalato in meno di un mese: due febbrate progressivamente risoltesi e una prognosi (di cui nutro qualche dubbio) di una infezione, che spiegherebbe questi picchi di febbre senza sintomi. Nel mezzo debolezza e brividi e le mie paranoie. Io resto spaventato e dubitabondo, con la mia mente che deriva verso paure che si fanno ipocondrie che si trasformano in fantasmi. Penso di avere un carattere un po' strano: avrei sempre bisogno di diagnosi certe, prognosi sicure, remissioni totali. Percorsi e progetti delineati. Non solo a livello medico. Ma la vita gioca una partita con regole un po' strane e rapsodiche, che collide con mia ansia di avere tutto chiaro. Comunque io, fra spericolate autoanalisi, vorticosi giri negli inferi di internet, ansiogene parole con altri medici, depositari loro sì del sapere ma tutti così restii a comunicare e consolare (questa mi rendo conto é una lettura figlia delle mie paturnie), mi sono autodiagnosticato come stressato: lo stress mi avrebbe abbattuto le difese immunitarie, esponendomi a virus e batteri e a quell'indefinito mondo prepatologico ma non meno morboso delle ipocondrie, fra cui quello (chissà cosa) che mi sta tormentando in questo mese. In effetti tornerebbe. Pronuncio sempre la parola stress con pudore, come se non la volessi sottrarre a chi davvero ha motivi per soffrirne. Io del resto mi dico, e mi viene detto, sono una persona fortunata: con una famiglia spettacolare, un lavoro splendido che mi fa esprimere nella mia pazza creatività (l'ultima grande soddisfazione il convegno su vino, eros e salute dello scorso 2 dicembre), un percorso di vita avvincente che prevede il restauro di una vecchia casa di campagna e nell'attesa il mio attuale nido, una deliziosa casetta by this river (anzi, mi viene proprio voglia di metterla, quel capolavoro di Brian Eno). 
Sta proprio qui l'inceppamento dell'ingranaggio. Secondo questa oggettiva fortuna le mie debolezze dovrei quasi nasconderle, fuggirle, non condividerle, non farle uscire, non provarle perché dovrei guardarmi attorno. Perché sono fortunato: certo che sono fortunato, ne è chiara coscienza. Ma questo non mi esenta dalle mie fragilità inconsce. Io ho paura che tutto giri, che le cose cambino, che il filo si spezzi. Un rovescio, una malattia, una deviazione imprevista. Della medaglia, appena il mio fisico mi dá dei cenni di non-perfetta-adesione-a-uno-stato-di-benessere-atarassico, tendo a intravedere, e a indugiare, come se ci fosse una voluptas dolendi di cui tanto parevano bearsi gli antichi. 
Con questa mia fragilità avrei anche imparato a convivere, come una relazione con tanti bassi e qualche alto: del resto é la mia fragilità che mi ha spinto nelle braccia delle humanae litterae. "Cosa avrei visto del mondo, senza questa luce che illumina i miei pensieri neri?" canta il maestro Battiato in "Un oceano di silenzio".



Mi ha condotto a cercare rifugio nello studio, nel pensiero altrui. Che mi ha forzato ormai da quasi venticinque anni a prendere in mano penne, biro, matite, picchiettare tastiere di ogni tipo e scrivere, scrivere, scrivere... Scrivo, perché "cantando il suol si disacerba", come dice il Petrarca.
Mi ha permesso di emozionarmi, di "sentire". Mi ha fatto eccitare e piangere per certi film speciali, per certe canzoni scritte a modo, per certe poesie che colpiscono duro l'animo e ti fanno essere così vicino, così germano, al loro autore. A Pirandello, Montale e Pavese, se devo proprio citarne tre, almeno in Letteratura. 
In questi dieci mesi di restauro ho ormai esautorato tutte le mie energie. Le pile sono scariche. Non é tanto la questione economica che preme quanto l'essere, il dover essere, il dover indossare la maschera di quello che motiva tutto e tutti. Io non posso permettermi il dubbio, almeno per Bisarno, o meglio dire non posso permettermi di condividere le preoccupazioni perché la ciurma é organizzata così, e io sono quello delle idee, dell'entusiasmo, del motivatore, del saper affrontare come un carroarmaro ogni possibile questione. L'ho fatto, sempre, e oggi, alle porte di un primo significativo traguardo, ne sento la stanchezza e il peso e forse già un primo senso di rilascio.
Il lavoro stesso non molla, né  posso io mollare di una stilla: il mio lavoro vuole la mia pancia, la mia testa e tanto del mio tempo. Mi continua a dare soddisfazioni e a far viaggiare, ma mi strizza da dentro, fortemente, erodendomi, sottraendomi ogni confine fra spazio professionale e spazio privato. E allora entra in gioco un altro sentimento, ad arricchire questo baccanale di sentimenti ambivalenti: il rimorso. Mi sottrae alla famiglia, alle bambine. Cosa che sta facendo anche Bisarno.
Fuori ormai la nebbia avvolge e il freddo entra nelle ossa. Adesso é buio e la mia solita malinconia (finirò per affezionarmici) é esacerbata da questa seconda inquieta convalescenza.
Dicembre, stagione di poca luce, umido e freddo. Si guarda avanti e si stringe i denti, in attesa che queste linee storte si aggiustino e che alle 17 non sia già buio. Buona notte. 

Vino ed eros fra i Babilonesi e gli Egizi. La storia del vino. Parte 3.

Come si è visto il vino pare aver avuto origine in un periodo risalente a circa 6000/7000 anni orsono in una zona situabile fra la Georgia e l'Armenia, nel Caucaso meridionale. Sono state trovate delle giare di terracotta interrate atte a produrre un "vino" dalla fermentazione della vite spontanea.
La leggenda vuole che gli Argonauti di Giasone, in cerca del vello d'oro, solcarono quelle terre, abbeverandosi in una fonte da cui scorgava vino.
In un intersecarsi continuo e vorticoso fra mitologia e realtà, altre popolazioni lontanissime geograficamente l'un l'altra associano la nascita del vino al mito del diluvio e a una nuova alba di civiltà, come abbiamo raccontato nelle due puntate precedenti qui.
Eccoci adesso arrivare a una terza pagina della storia, questa più svelata e conosciuta: le grandi civiltà del mediterraneo e della mezzaluna fertile dove il vino veste un ruolo da protagonista assoluto in quello spazio indefinito fra eros e trascendenza. E'  in queste terre  fra il Mediterraneo e la valle dei due grandi fiumi, il Tigri e l'Eufrate che si attesta la domesticazione delle vite. Non è chiaro come il vino abbia compiuto il lungo viaggio che dalle zone transcaucasiche lo abbia fatto giungere fino al mediterraneo: l'ipotesi più probante è che sia stato grazie ai commercianti che in quegli anni compivano migliaia di chilometri e leggenderie traversate a cavallo. Un'altra ipotesi altrettanto valida è che la vite nascesse spontanea anche in queste terre.
E, nel vasto mondo delle civiltá mesopotamiche che sappiamo con certezza consumare e amare il vino (soprattutto gli Assiri e i Sumeri), gli antichi Babilonesi - che avevano contribuito al mito del diluvio attraverso la figura di Dercos Haelius, il marinaio del vino nuovo, su cui poi verrá modellato il ben più noto mito greco di Deucalione - sono i primi che ci offrono una testimonianza artistica di persone che bevono vino: si tratta dello Stendardo di Ur (2500 aC, visibile al British Museum). I Babilonesi veneravano anche una deità specifica, tale Geshtin, la madre della vite.


Lo Stendardo di Ur

Ma i primi veri coltivatori esporti della vite, quelli che per primi ne hanno tentato un approccio agronomico propedeutico alla vinificazione sono gli antichi Egizi. 
Anche loro avevano un pantheon associato al mondo del vino: Osiride, divinità della agricoltura e della vita oltre la morte, è il signore del vino al tempo della piena e signore dei bagordi della festa. Altrove il vino è il sudore di Ra o le lacrime di Horus.
Uno dei momenti più curiosi che caratterizzano la civiltà egizia sono le cosiddette "feste dell'ubriacatezza", dove il vino ancora una volta è unito alla sfera sessuale: vino e il piacere della carne, tutto in condivisione, inducono a uno stato teofanico, cioè permettono di percepire un'estasi associabile a un qualcosa di extra - corporeo, una divinità o una trascendenza. 
Il vino ancora non é bevanda popolare - il popolo in Egitto beveva birra - ma viene bevuto da ceti più ricchi e i religiosi come elemento in grado di portare a un livello superiore la percezione: del vino si é ammaliati dalla sua ambivalenza fra il tremendum e il fascinans, questo disequilibrio funzionale fra l'io e il super io, uno stato altro della coscienza. In questo la sessualità, il piacere riveste un ruolo altrettanto determinante nella cultura egizia. 

Il Papiro Erotico.