5 dicembre 2016

Post inutile.



Siamo a dicembre. Due volte ammalato in meno di un mese: due febbrate progressivamente risoltesi e una prognosi (di cui nutro qualche dubbio) di una infezione, che spiegherebbe questi picchi di febbre senza sintomi. Nel mezzo debolezza e brividi e le mie paranoie. Io resto spaventato e dubitabondo, con la mia mente che deriva verso paure che si fanno ipocondrie che si trasformano in fantasmi. Penso di avere un carattere un po' strano: avrei sempre bisogno di diagnosi certe, prognosi sicure, remissioni totali. Percorsi e progetti delineati. Non solo a livello medico. Ma la vita gioca una partita con regole un po' strane e rapsodiche, che collide con mia ansia di avere tutto chiaro. Comunque io, fra spericolate autoanalisi, vorticosi giri negli inferi di internet, ansiogene parole con altri medici, depositari loro sì del sapere ma tutti così restii a comunicare e consolare (questa mi rendo conto é una lettura figlia delle mie paturnie), mi sono autodiagnosticato come stressato: lo stress mi avrebbe abbattuto le difese immunitarie, esponendomi a virus e batteri e a quell'indefinito mondo prepatologico ma non meno morboso delle ipocondrie, fra cui quello (chissà cosa) che mi sta tormentando in questo mese. In effetti tornerebbe. Pronuncio sempre la parola stress con pudore, come se non la volessi sottrarre a chi davvero ha motivi per soffrirne. Io del resto mi dico, e mi viene detto, sono una persona fortunata: con una famiglia spettacolare, un lavoro splendido che mi fa esprimere nella mia pazza creatività (l'ultima grande soddisfazione il convegno su vino, eros e salute dello scorso 2 dicembre), un percorso di vita avvincente che prevede il restauro di una vecchia casa di campagna e nell'attesa il mio attuale nido, una deliziosa casetta by this river (anzi, mi viene proprio voglia di metterla, quel capolavoro di Brian Eno). 
Sta proprio qui l'inceppamento dell'ingranaggio. Secondo questa oggettiva fortuna le mie debolezze dovrei quasi nasconderle, fuggirle, non condividerle, non farle uscire, non provarle perché dovrei guardarmi attorno. Perché sono fortunato: certo che sono fortunato, ne è chiara coscienza. Ma questo non mi esenta dalle mie fragilità inconsce. Io ho paura che tutto giri, che le cose cambino, che il filo si spezzi. Un rovescio, una malattia, una deviazione imprevista. Della medaglia, appena il mio fisico mi dá dei cenni di non-perfetta-adesione-a-uno-stato-di-benessere-atarassico, tendo a intravedere, e a indugiare, come se ci fosse una voluptas dolendi di cui tanto parevano bearsi gli antichi. 
Con questa mia fragilità avrei anche imparato a convivere, come una relazione con tanti bassi e qualche alto: del resto é la mia fragilità che mi ha spinto nelle braccia delle humanae litterae. "Cosa avrei visto del mondo, senza questa luce che illumina i miei pensieri neri?" canta il maestro Battiato in "Un oceano di silenzio".



Mi ha condotto a cercare rifugio nello studio, nel pensiero altrui. Che mi ha forzato ormai da quasi venticinque anni a prendere in mano penne, biro, matite, picchiettare tastiere di ogni tipo e scrivere, scrivere, scrivere... Scrivo, perché "cantando il suol si disacerba", come dice il Petrarca.
Mi ha permesso di emozionarmi, di "sentire". Mi ha fatto eccitare e piangere per certi film speciali, per certe canzoni scritte a modo, per certe poesie che colpiscono duro l'animo e ti fanno essere così vicino, così germano, al loro autore. A Pirandello, Montale e Pavese, se devo proprio citarne tre, almeno in Letteratura. 
In questi dieci mesi di restauro ho ormai esautorato tutte le mie energie. Le pile sono scariche. Non é tanto la questione economica che preme quanto l'essere, il dover essere, il dover indossare la maschera di quello che motiva tutto e tutti. Io non posso permettermi il dubbio, almeno per Bisarno, o meglio dire non posso permettermi di condividere le preoccupazioni perché la ciurma é organizzata così, e io sono quello delle idee, dell'entusiasmo, del motivatore, del saper affrontare come un carroarmaro ogni possibile questione. L'ho fatto, sempre, e oggi, alle porte di un primo significativo traguardo, ne sento la stanchezza e il peso e forse già un primo senso di rilascio.
Il lavoro stesso non molla, né  posso io mollare di una stilla: il mio lavoro vuole la mia pancia, la mia testa e tanto del mio tempo. Mi continua a dare soddisfazioni e a far viaggiare, ma mi strizza da dentro, fortemente, erodendomi, sottraendomi ogni confine fra spazio professionale e spazio privato. E allora entra in gioco un altro sentimento, ad arricchire questo baccanale di sentimenti ambivalenti: il rimorso. Mi sottrae alla famiglia, alle bambine. Cosa che sta facendo anche Bisarno.
Fuori ormai la nebbia avvolge e il freddo entra nelle ossa. Adesso é buio e la mia solita malinconia (finirò per affezionarmici) é esacerbata da questa seconda inquieta convalescenza.
Dicembre, stagione di poca luce, umido e freddo. Si guarda avanti e si stringe i denti, in attesa che queste linee storte si aggiustino e che alle 17 non sia già buio. Buona notte. 

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